Eugénie de Franval, Florville e Courval, Dorgeville: tre perfetti marchingegni narrativi (originariamente contenuti nella raccolta I crimini dell’amore, 1800) in cui Sade dà prova di un savoir faire letterario degno dei più grandi romanzieri della sua epoca. Lontano dalla prolissità e dall’oltranzismo delle sue pubblicazioni clandestine, il Divin marchese si affida qui all’allusione, all’ellissi e persino alla suspense per sovvertire convenzioni letterarie e sociali, dischiudendoci con illuministica ironia le quinte teatrali dell’ipocrisia e della moralità.

Donatien Alphonse François de Sade (1740-1814) trascorse gran parte della propria esistenza fra prigioni e manicomi: lunghi decenni durante i quali eresse il più imponente monumento letterario all’audacia e alla trasgressione.
Ancor prima che l’opera di uno scrittore, il suo nome evoca un paesaggio mentale la cui fisionomia prefigura il destino della contemporaneità. Venerato da Flaubert e Baudelaire, assurto a mae­stro fra i surrealisti, indagato da pensatori come Adorno, Foucault e Bataille, trasposto da registi come Buñuel e Pasolini, Sade resta una delle figure più enigmatiche e perturbanti della cultura occidentale.

Sade sull’utilità dei romanzi...

«Credo sia qui necessario rispondere all’eterna obiezione di alcuni spiriti atrabiliari, i quali, per darsi la parvenza di una moralità che tengono ben lontana dai loro cuori, non cessano di chiedere: a cosa servono i romanzi? A cosa servono, uomini ipocriti e perversi? Non è un caso che siate i soli a porvi questa ridicola domanda: i romanzi servono a ritrarvi quali siete.»

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