Tommaso Pincio a Torino
In occasione dell’uscita di Scrissi d’arte, Tommaso Pincio incontra Luca Beatrice e Massimo Kaufmann.

In occasione dell’uscita di Scrissi d’arte, Tommaso Pincio incontra Luca Beatrice e Massimo Kaufmann.
In Scrissi d’arte, Tommaso Pincio raccoglie, con il senno del suo presente di romanziere, gli scritti d’arte elaborati nell’arco di una vita, dagli anni di militanza come pittore e critico alle più recenti incursioni sui grandi nomi della contemporaneità.
Al Circolo dei Lettori di Torino incontra due dei protagonisti del libro: il critico Luca Beatrice e il pittore Massimo Kaufmann. Due ritratti dal vivo attraverso la voce e gli scritti di una delle voci più significative del panorama letterario contemporaneo.
Non è detto che un narratore debba commerciare coi miti; ma in questo, fra gli scrittori d’oggi, Tommaso Pincio davvero non teme paragoni. Il primo mito – a partire dal nome che s’è scelto – è il suo: che spiega il suo successo attuale con un fallimento remoto, quello del suo alter ego, un giovin signore che a vent’anni non si chiamava certo «Pincio» e non aveva la vocazione dello scrittore, bensì quella del pittore. A un certo punto qualcuno gli fece capire che lì, per dirla con romana brutalità, non c’era trippa per gatti; cominciarono così, a cavallo del nuovo secolo, un nuovo mestiere e una nuova identità. Quello fra penna e pennello, si sa, è cimento di lunga tradizione; messa così, però, è una mistificazione bella e buona. Perché c’è stato un periodo in cui penna e pennello stavano insieme sul suo tavolo concettuale. Il giovin signore masticava la sua delusione e lavorava in una galleria prestigiosa: assistendo artisti che, anche col suo aiuto, conseguivano il successo a lui negato. Eccome se scriveva: saggi, interventi, presentazioni; giunse persino a pubblicare un libro – Conformale, nel 1992 – che oggi è una rarità. Partecipava così, in forma vicaria e autopersecutoria, alle avventure altrui. Già allora la scrittura era un surrogato, un doppio virtuale, un malinteso beffardo: «Pincio», così di là da venire, viene da lì. Gli venivano così bene, le parole, che un bel giorno decise di affrancarle, almeno formalmente, da quell’obliquità da assistente; ma non è un caso che il suo primo romanzo, M., fosse intessuto di descrizioni di opere d’arte. E se deve scrivere un articolo, oggi che è uno scrittore affermato, è su un artista che preferisce farlo – proprio mentre ha rimesso mano al pennello... Forse quel percorso tradizionale ha deciso di rifarlo a ritroso, sia pure al suo modo obliquo: per esempio, pubblicando questo libro. Nel quale riporta il suo copioso repertorio “d’arte” (sui compagni di strada di quegli anni, da Stefano Arienti a Gianni Dessì, da Alfredo Pirri a Marco Colazzo; pezzi più recenti sono poi dedicati a classici moderni e contemporanei come Caravaggio e de Kooning, Warhol o Basquiat), tacitamente cancellandone alcune parti. Mentre altre ne correda di una cornice biografica, o mitobiografica, sulla sua vita di allora e quella di oggi: così componendo un’autobiografia per interposta quadreria. A.C.